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stupidi per la novità della cosa, e scoppiarono di ridere. Onde il prigioniere per tal giuoco fu liberato. E però meritamente diceva quel famoso filosofo Diogene, che più tosto ischifare debbiamo l’invidia de gli amici, che le insidie de’ nemici; perchè quelle sono un male aperto, e questa è nascosa: ma è molto più potente l’inganno che non si teme.

Isabella, poi che impose fine alla sua breve favola non poco laudata dall’orrevole compagnia, mise mano alle sue armi, ed un enimma diede fuori, così dicendo:

Due siamo in nome, e sol una in presenza,
     Fatte con arte, e fornite con guai.
Fra donne conversiam senza avertenza,
     Ma siam maggior fra genti rozze assai.
Ed infiniti non posson far senza
     Nostro valor, nè si dogliamo mai.
E consumate per l’altrui lavoro,
     Guardate non siam più d’alcun di loro.

Questo enimma altro non dinota, che le forfice, con le quali le donne tagliano le fila: ma fra gente minuta, come tra sarti, cimadori, barbieri e fabri, sono assai maggiori di quelle che adoperano le donne. — Non dispiacque il bel enimma a gli auditori, ma sommamente il comendorono. E Vicenza, a cui l’ultimo luogo della presente notte toccava, alla sua favola in tal maniera diede cominciamento.