poco si vedeva. Il che veggendo il leone e l’ingiuriose parole nell’animo rivogliendo, da un canto molto temeva soccorrerlo, da l’altro temeva che, liberato, non l’uccidesse. Laonde stando tra il sì e ’l no, determinò, intravenga ciò che si voglia, d’aiutarlo. Ed attuffatosi nell’acqua, se gli accostò appresso; e presolo per la coda, tanto tirò, che lo condusse fuor d’acqua. L’asino, vedendosi sopra la riva del fiume e già sicuro dalle minacciose onde, tutto si turbò; e d’ira acceso, ad alta voce disse: Ahi, tristo! ahi, ribaldone! non so che mi tenga che io non scocchi la ballestra mia, e ti faci sentire quello che non vorresti. Tu sei la mia seccagine e la privazione d’ogni mio piacere. E quando, misero me, arrò il maggior solazzo? Il leone, più timoroso che prima divenuto, disse: Io, compagno mio, fortemente temeva che tu non t’affocassi nel fiume, e però venni e ti aiutai, pensando di farti cosa grata, e non spiacere. — Or non dir più, disse l’asino: ma una sol cosa desidero da te sapere: qual frutto, qual utile hai tu conseguito del tuo varcare il fiume? — Nulla, rispose il leone. Ma l’asino, voltatosi, disse: Guata bene se nel fiume sentiva piacere. E crollatasi la persona e l’orecchie, che erano piene di acqua, li mostrò e pesciculi e gli altri animaletti che uscivano delle sue orecchie; e dolendosi disse: Vedi tu quanto error facesti? Se io me n’andava al fondo del fiume, prendeva, con grandissimo mio piacere, pesci che ti arebbeno fatto stupire. Ma fa che per l’innanzi più non mi annoi; perciò che di amici veniressimo nemici, e sarebbe il peggio per te. Ed avenga che morto mi vedesti, non però voglio che tu te ne curi punto: perciò che quello che ti parrà in me morte, sarà in me piacere e vita. Oramai il sole per la sua partita dopplicava le ombre, quando il leone al compagno fece