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indrio e manti, vo dire el zovo con che s’artien arzunti i buò al verzuro e che va in su e in zo per le tere e per le strè, e sì è vezù da tuti quanti. E quegi che stan da ’n lò e da l’altro, i giè i buò, che sta a paregio; e quelù che dà a quatro in su la schina, sì è el boaro che ghe va drio con la gugia che dà al bo c’ha quatro pie. E tuta flà ve-l digo da bon amigo che l’è el zovo. E sì, a’ no me intendi? Piacque la isposizione del villanesco enimma, e — ciascuno tuttavia ridendo — fu da tutti sommamente lodato. Ma il Trivigiano, che sapeva a niun altro in quella sera toccar la volta del favoleggiare, se no alla graziosa Cateruzza, voltatosi con leggiadro sembiante verso la Signora, disse: Non già ch’io voglia turbare il dato ordine, nè dar legge a vostra altezza, che mi è patrona, anzi Signora; ma per sodisfare all’onesto desiderio di tutta questa amorosa compagnia, mi sarebbe di grandissimo contentamento che vostra eccellenza partecipasse con esso noi le cose sue, raccontandone con quella buona grazia, che ella suole, alcuna favola che ci presti piacere e diletto. E se io per avventura fossi stato in ciò — che Iddio no’l voglia — più prosuntuoso che quello che si conviene alla bassezza mia, prego la mi abbia per iscusato; perciò che l’amore che io porto a tutta questa graziosa compagnia, di cotal dimanda n’è stata primiera cagione. La Signora, udita la cortese dimanda del Trivigiano, abbassò prima gli occhi a terra; non già per timore, nè per vergogna ch’ella avesse, ma perchè pensava che a lei più tosto per diverse cagioni apparteneva l’ascoltare che il ragionare; dopo con atti leggiadri e onesti modi a letizia inclinati, ravolse il suo chiaro viso verso il Trivigiano, e disse: Signor Benedetto, ancor che la dimanda vostra sia piacevole ed onesta, non però dovevate essere così sollecito diman-