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FAVOLA I.

Tre forfanti s’accompagnano insieme per andar a Roma; e per strada trovano una gemma, e tra loro vengono in contenzione, di chi esser debba. Un gentil’uomo prononcia dever esser di colui che farà la piú poltronesca prodezza; e la causa rimane indiscussa.

Considerava tra me stessa, valorose donne, la gran varietà di stati, ne’ quai oggidí e miseri mortali si trovano; e giudicai tra le umane creature non trovarsi il piú sciagurato nè ’l piú tristo, che viver poltronescamente; perciò che e poltroni per la loro dapocagine sono biasmati da tutti e dimostrati a dito, e piú tosto vogliono viver in stracci e in tormenti, che dalla loro poltroneria rimuoversi: come avenne a tre gran forfantoni, la natura di quali nel processo del mio ragionare a pieno intenderete.

Dicovi adunque che nel territorio di Siena (non sono ancora passati duoi anni) si trovarono tre compagnoni giovani di età, ma vecchi ed eccellenti in ogni sorte di poltroneria, che dir o imaginar si potesse. Di quai l’uno, per esser piú dedito alla gola che gli altri,

chiamavasi Gordino; l’altro, perchè era da poco e infenticcio, tutti lo chiamavano Fentuzzo; il terzo, perchè aveva poco senno in zucca, si nominava Sennuccio. Trovandosi tutta tre un giorno a caso sopra un crucichio, e ragionando insieme, disse Fentuzzo: — Dove tenete il camino vostro, fratelli? — A cui rispose Gordino: — Io me ne vo a Roma. — E per far che? — disse Fentuzzo. — Per trovare, — rispose Gordino, — alcuna ventura che facesse per me, acciò che io viver potessi senza affaticarmi. — E cosí ancor noi andemo, — dissero i duoi compagni. — E quando il fosse di contento vostro, — disse Sennuccio, — io volontieri verrei con voi. — E duoi compagni graziosamente l’accettarono; e dieronsi la fede di mai non partirsi l’uno dall’altro, sino attanto