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nostra buona ventura, che già vi abbiamo consacrate molte pagine per farne l’illustrazione. Dopo tante liberalità verso il nostro eroe, il meno che possiam fare per la nostra eroina, è di raccomandare all’attenzione del lettore il paragrafo in cui abbiamo tentato di dipingerla.

Scorgete voi, laggiù quella bruna casetta, dal largo tetto che scende quasi a terra da un lato, e dal gran arco che slanciasi al di sopra della porta principale? Senza dubbio l’avete più volte rimarcata ne avrete scordato i letti di piuma e i molli capezzali stesi al davanzale delle finestre, in un limpido mattino d’estate. Nè avrete scordato la gran porta assicurata da una catena ad una grossa pietra la finestra della dispensa, difesa da una griglietta, che sporgeva su una foresta di bastoncelli, su cui arrampicavansi i fagiuoli. Nè avrete scordato il zeffiro che scherzava fra i fiori e faceva ondeggiare gli steli delle spighe, mentre i suoi sforzi rompevansi contro un ceppo di cavoli, che lussureggiava su quel terreno. Li, poco stante, potete ammirare le foglie rossastre delle barbabiettole, e le brillanti piùme della pastinaca; colà goder del fremito dell’uvaspina, simile all’onda del mare, attortigliantesi alle siepe, o separate fra loro da numerosi cotogni. Più in là un piccol tratto di terra con somma parsimonia consacrato al diletto; là brillavano in tutta la lor pompa i fiorranci, i papaveri; in fine vedevasi un vaso che racchiudeva un geranio rosato, che gittando lo sguardo attorno al giardino, pareva considerarsi come estraneo, quasi un maestro di danze francesi in una chiesa di Yankees.

Quella è la dimora di papà Tim Griswold. Papà