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erasi fermata fra di noi più di un mese ch’io già l’amava sopra ogni cosa. Uno statistico avrebbe preso di calcolo di tutti i piccoli favori che avevan prodotto in me quel risultato. Era uno sguardo — una parola — un sorriso; ora pareva compiacersi nel mirare il mio cervo volante; ora mi applaudiva quando m’era dato di far dormire il mio ghiro. Ella sola pareva stimare i miei progressi nell’arte di giuocare alle pallottole: non si corucciava mai se rovesciava al suolo il suo paniere da lavoro; le mie goffe galanterie, le mie premure malaccorte erano da lei accolte come se fossero del miglior gusto; soffriva? non voleva altro che me a tenerle compagnia qualunque devastazione io mi facessi, secondo la mia abitudine, fra le ampolle e le tazze che si trovavano nella sua camera; benchè, ad onta del mio zelo, lo ponessi nel curarla un’inesperienza straordinaria. Ella era parimenti la sola persona che mi facesse l’onore di discorrere con me, ed io stupiva d’assai che potendo intrattenersi su ogni oggetto, su ogni questione con gente di giudizio, ella degnasse di prendere interesse o delle pallottole, de’ cerchi, od altri oggetti destinati a trastullo d’un ragazzo. E, così di passaggio, mi sia permesso il dire che tali gusti sono alle volte comuni ai vecchi. Ella conosceva quale varietà d’istruzione abbisogna a fare non una pedante, ma una donna amabile, socievole, com’era ella medesima. Pussedeva anche l’arte conversando di innalzare gli altri al suo livello; sicchè molte volte io mi sentiva sovente d’una rara eloquenza, quando parlava, e nel corso del colloquio io chiedeva a me medesimo se non fossi ancora un piccolo garzoncello.