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tanto alla quarantesima volta, come alla prima. Nessuno era tanto filosofo com’io: era uno di quegli esseri irragionevoli che non sanno accomodarsi alla natura delle cose; era timido ad un tempo, concentrato e fiero per tutti coloro che mi avvicinavano io non era che uno sbadataccio, un fanciullo nato sotto funesti auspici; pe’ miei parenti non era che un’unità nella loro dozzina di figli, che dovevano ogni sabato pulire dalla testa ai piedi, ed accomodarne gli abiti: non mi davano rimedi, nè si chiamava il medico che in caso di grave malattia; ma se la mia non fosse stata che una indisposizione, limitavansi ad esortarmi ad essere paziente: è se mi pigliava male al cuore, m’abbandonavano a’ me stesso.

Fin qui era nulla: che ha mai di mestieri un fanciullo? Mangiare e bevere, giuocare in camera, ire alla scuola per imparare a leggere e scrivere; e qualche cura quando era sofferente. Ciò poteva bastargli. Ma se la sensibilità si sviluppa nella gioventù cogli anni, rinviensi però di frequente anche nell’infanzia, più che nol si creda. Dal canto mio fino da quella tenera età, io sentiva di già l’ingiustizia che ferisce il cuore. Era già tratto verso tutto ciò che si riferisce agli intimi sentimenti; provava ribrezzo per le idee e le sensazioni volgari, mentre con tutti i voti del cuor mio tendeva verso la simpatia. Idee generose che in ogni tempo, e sempre inutilmente, furono di moda in questo mondo. Fra le creature nate con simile costituzione avvene forse una che soffri più di un povero fanciullo, rejetto da tutti, in preda all’avversione ed all’ingiustizia?

Tutti abbiamo fino ad un dato limite affinità di età,