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libro primo, capo quinto | 71 |
e ponti alla foggia di que’ giardini che più tardi si chiamarono inglesi, e sono pure italiani d’origine e di trovato e d’esecuzione.
Chiamavasi quel luogo il Parco; e là pure stendeansi prati, campi e vigneti. La piantavansi migliaia di gelsi, seminavasi il miglior grano di Sicilia, educavansi le razze migliori di buoi, di vacche, di bufali.1
Più tardi vi si teneano anche tigri e cinghiali, daini, cervi e camozze. Vi s’alzava un magnifico palazzo chiamato Viboccone, e vi s’edificava una chiesa nel 1605. Il fresco pennello del Moncalvo2 ornava di bei dipinti il soffitto di quel casamento, posto all’estremità del parco. Questa fabbrica coperta di una graziosa cupola, con portici e colonne, e immense scalee esteriori, era, a giudicarne dai disegni, splendidissima cosa; ma Carlo Emmanuele, impedito dalle guerre, non potè condurla a termine.
Ma già dai primi anni del regno di lui le delizie di quell’ampio sito erano famose: eran frequenti le feste che vi si davano, convegno d’una delle corti più fiorite e più spiritose che fossero al mondo; ne altrove attinse Torquato Tasso la sua idea del giardino d’Armida siccome lo dichiarava per sua lettera egli stesso.
Favole pastorali recitavansi nel parco al 1601.
Ad una festa era colà invitato il maresciallo di Crequy in luglio del 1629.3 Accenna a queste delizie del Parco monsignor Giovanni Boterò nel suo poema