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capo sesto | 115 |
cade in una dolorosa spossatezza. Il fremilo, lo spasimo, la febbre feroce dell’anima vien meno. L’infelice chiude gli occhi e s’addormenta. Ma qual sonno, gran Dio! e quai fantasmi!
La brezza mattutina penetra nel freddo carcere. Ei si sveglia: la chiarezza dell’alba comincia a vincere il lume della fioca lampa che gli arde dappresso. Quella luce che rallegra la terra, che ogni creatura saluta, è la vista la più crudele al cuor del condannato; perchè quella luce è l’ultima ch’egli vedrà. Allora un tremito generale gli scuote le membra. Le sanguinose imagini che l’agitavano il giorno innanzi più feroci e più rapide gli trasvolano in mente, coll’impeto di fiotti rovinosi, di cui l’un l’altro incalza, sempre varii e sempre continui.
Succede a queste ambasce un annientamento morale che non è morte, solo perchè non esclude la conscienza di ciò che succede. E quando l’esecutore, inginocchiato innanzi al Crocifìsso, chiede perdono al pazien te dell’omicidio a cui la legge lo sforza, e quando gli stringe le mani colla fune, ogni forza morale è perduta, se provvida e pietosa la religion noi sostiene.
Per tutte queste ambasce era passato Bernard di Corbeville; la processione uscita dalla cittadella si era altelata attorno ad un palco che si levava innanzi alla porta della medesima, e sul quale era disposta la macchina, che assai più tardi si chiamò Guigliotina. Il condannato appoggiandosi sui religiosi aveva