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mera dello storico dovrà persuadersi della infelicità di que’ tempi.
Ora conviene ch’io ponga sott’occhio una fedele immagine del nuovo comandante delle armi milanesi Francesco Sforza. Sì tosto che il conte Francesco fu creato capitano generale della repubblica di Milano, e che l’armata di esso conte venne allo stipendio de’ Milanesi, ei si trovò alla testa di forze valevoli a preservare lo Stato e dai Veneziani, e da ogni altro pretendente. Se egli le avesse rivoltate allora per assoggettare a sè il ducato di Milano, avrebbe dovuto superare ad un tempo medesimo e le forze venete, e le savoiarde, e le francesi, e l’entusiasmo della nascente libertà de’ popoli, non per anco staccati dai disordini dell’anarchia. I suoi soldati avrebbero ragionato fors’anco del tradimento che si faceva ai Milanesi, della illegalità delle pretensioni sue alla successione nel ducato; si doveva temere o la defezione o la svogliatezza. Il conte conosceva i tempi, gli uomini e gli affari. Egli era venerato come il più gran generale del suo tempo. Sapeva farsi adorare da’ suoi soldati, che egli, con una prodigiosa memoria, soleva quasi tutti chiamare col loro nome. Nella azione si esponeva con mirabile indifferenza e intrepidezza, e con voce militare animava nella mischia i combattenti. Padrone assoluto de’ propri moti, sapeva celare le cose che gli dispiacevano con mirabile superiorità d’animo. Accortissimo conoscitore dei pensieri altrui, antivedeva le risoluzioni de’ nemici, che lo trovavano preparato mentre s’immaginavano di sorprenderlo. La reputazione dello Sforza era tale, che, venendo da’ Veneziani attaccato un drappello dei suoi ch’egli aveva postati a Montebarro, vi giunse il conte Francesco nel punto in cui i nemici vincevano