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reo e de’ consanguinei che vivessero indivisi con lui, e quindi gl’innocenti si trovavano costretti a dispendiosissime liti, dalle quali erano prima rovinati che ottenessero la loro porzione devastata. Fa poi ribrezzo maggiore il conoscere da quella supplica quanto ingiusta e crudele fosse la procedura criminale esercitata in quell’epoca da coloro che avevano una carica di capitano di giustizia. Questo supremo giudice, assistito dal suo vicario e da quattro fiscali, procedeva servato et non servato jure comuni. Vi fosse o non vi fosse il corpo del delitto, questo non arrestava la procedura. Il primo atto del processo era citare formalmente il tal cittadino, acciocchè si presentasse all’esame. In questo esame non di rado veniva il cittadino posto ai tormenti, e quindi cum terrori sit omnibus officium illud (dice il Prato), molti chiamati all’esame, per sottrarsi fuggivano, e poi si condannavano come contumaci anche gl’innocenti. Da questi aggravi chiesero i deputati che venisse liberata in avvenire la città; ed il re comandò al senato di proporre i rimedii. Se colle livellazioni fatte sulla pianura del ducato, alcuni uomini di quel secolo acquistarono diritto alla stima e riconoscenza de’ loro nipoti e successori, i togati di quei tempi cominciarono a farci conoscere che quella loro arte cui definiscono: ars boni et aequi, justi atque injusti scientia, è un’arte affatto staccata dal senso morale. Da quella carta istessa impariamo che allora più non si univa il consiglio dei novecento, ma era di centocinquanta il consiglio generale della città di Milano; e que’ centocinquanta nobili rappresentavano veramente la loro patria, poichè da quella erano eletti a parlare e ad agire per essa. Il metodo della elezione era questo.