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che, o per le pestilenze ed altri fisici disastri, passato un determinato numero di anni, la città riprese vigore e si ristorò allo stato primiero, siccome vedremo nel progresso; laddove da questa desolazione del 538 per cinque interi secoli non fu possibile che risorgesse. Quantunque sotto di Attila ottantasette anni prima fosse diroccata, smantellata, incendiata Milano, dispersi i cittadini, saccheggiate le loro ricchezze; noi vediamo che ebbero ardire e forza per collegarsi con Belisario, e porre in forse il regno de’ Goti; e se per cinquecento anni, dopo l’eccidio di Vitige, rimase dimenticata la città di Milano, e posposta a Pavia non solo, ma persino a Monza, forza è il dire che la spopolazione e l’esterminio veramente sieno stati enormi. Non per questo mi renderò io mallevadore del preciso numero scritto dallo storico greco, al quale il nostro Tristano Calco non dubitò di far una diminuzione col limitare la strage a trentamila uomini; con tuttociò a me sembra che una tale perdita, benchè funestissima, non sarebbe stata cagione bastevole a spiegare un così lungo annientamento accaduto dappoi.

Gli storici milanesi sin ora hanno veduti questi fatti sotto un aspetto diverso da quello col quale mi si presentano. Per me i nomi di Uraja e di Vitige sono i più funesti che possa rammemorare la nostra storia. E quali altri lo sarebbero se non lo sono i nomi di coloro che annientarono Milano dal secolo sesto sino al secolo undecimo? Gli storici nostri hanno temuto di deturpare lo splendore della patria raccontando una così lunga depressione, e non potendo spiegare dappoi come i re d’Italia ponessero la loro corte a Pavia, da Pavia avessero la data quasi tutti i di-