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ascoltato; ma gli venne risposto che esponesse le sue occorrenze a Zanino Riccio. Il Carmagnola alzò la voce colla speranza di essere inteso dal duca, e protestò che quel principe era attorniato da traditori e malvagi cortigiani. Le guardie avevano militato sotto di lui; sebbene animate ad arrestarlo, non l’osarono. Il conte allora, rimontato sopra il veloce destriero, su cui erasi ivi improvvisamente portato, forse si pentirà, disse, in breve il duca di non avermi ascoltato; e spronò il cavallo e disparve da un luogo dove non era stato senza pericolo; quindi per vie sicure se ne andò a Venezia, ove offrì i suoi servigi a quella repubblica, da cui vennero accettati con somma onorificenza.

Le avventure del conte Carmagnola sono interessanti. Il momento in cui sconsigliatamente volle il duca disgustare quel benemerito generale, fu quello in cui la fortuna dello Stato si cambiò; e laddove sino a quell’ora sempre la vittoria, le conquiste o le dedizioni avevano contrasegnati gli anni del suo regno, da quel punto cominciò a contrasegnarli colle inquietudini, colle sconfitte, colle umiliazioni e colle perdite. Appena era partito il conte, che il duca stese la mano confiscatrice su tutti i poderi suoi, e si riprese tutt’i doni che gli aveva fatti. Tese varie insidie per averlo prigione; ma non gli riuscirono. Tentò il veleno, e certo Giovanni Liprandi, milanese, che aveva per moglie una Visconti, provossi a Treviso di avvelenare il conte: il che verificato, perdè poi la testa a Venezia. A tali infami azioni s’abbassava il duca per consiglio di Zanino Riccio, e d’altri vigliacchi ed astrologi, pari a lui, mentre in vece con qualche onesto partito nulla sarebbe riuscito più facile che l’accomodarsi col Carmagnola,