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del governo. Ma oltre i mali inseparabili dalla minorità, lo Stato era un recente aggregato di conquiste, di usurpazioni, di compre; e nessun altro titolo v’era per convincere i popoli della legittimità della nuova dominazione, che la forza. Un diploma comprato da un debole e deposto imperatore, le male arti, le insidie e la più vergognosa mancanza di fede, questi erano i titoli che doveva far valere la vedova duchessa Catterina, donna avvilita d’animo; perchè, per lo spazio di ventidue anni, costretta a soffocare colla dissimulazione il rammarico della rovina di suo padre e de’ suoi fratelli, oppressi da quello stesso uomo ch’ella vedeasi giacere al suo fianco la notte, e al quale doveva simulare stima ed affetto. L’orrore del suo misero stato aveva ridotta la vedova principessa affatto incapace di reggere alla testa di una tale sovranità; ed all’animo abbattuto dalla lunga ed uniforme sofferenza de’ mali, s’aggiugneva un colpo d’apoplessia già sofferto, che la rendeva ancora più inetta agli affari. I due giovani principi non avevano alcun prossimo congiunto che potesse reggere lo Stato; non un Consiglio appoggiato alla costituzione. La loro rovina era inevitabile. La reggenza cominciò coll’unione di alcuni generali e di alcuni cortigiani, i quali pretesero di formare il Consiglio, presso cui stava la sovranità, sotto il nome del duca Giovanni Maria. Questa unione d’uomini potenti e mal assortiti, di cui ciascuno null’altro aveva per fine che la propria fortuna, e null’altro aspettava se non l’occasione per approfittarsi della gioventù d’un principe per il quale nessuno aveva alcuno zelo; questa unione, dico, colle interne rivalità, e col disordine ed interno scompigliamento, diede in certo qual modo il segnale ai sudditi