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mezzo a popoli de’ quali ignorava il costume e il linguaggio; abbandonato alla licenza militare di giovani incautamente espatriati per di lui consiglio, e inquieti per trovare mezzi da sussistere; in mezzo ai pericoli; senza forza d’animo e senza aiuto; mi sembra naturale ch’ei morisse d’affanno e di melanconia, e che si sbandassero i suoi, e ritornassero alla patria gli altri pochi rimasti, cui riuscì di trovare la strada ed i mezzi per rivederla. Coloro che rimproverano alla generazione vivente d’avere minor senno di quello che si osservava altre volte, esaminino queste epoche.
Nel principio appunto del secolo duedecimo lo storico nostro Landolfo Juniore, che è il solo autore contemporaneo, ci racconta un fatto prodigiosissimo; e ce lo descrive con circostanze cotanto minute e singolari, che sembra quasi ch’ei temesse l’incredulità dei posteri. Sin ora il suo timore fu vano; ma io lo credo giustissimo. Il fatto è il seguente. Mentre Anselmo da Boisio era partito, comandando l’esercito che marciava alla conquista di Babilonia, il vescovo di Savona Grossolano, come vicario dell’assente arcivescovo, reggeva la chiesa milanese. Giunta la nuova della morte di Anselmo, Grossolano ebbe un partito, e fu eletto arcivescovo; e dal papa fugli spedito il pallio, che il portatore tenendo a guisa di stendardo, in cima del bastone, andava gridando: ecco la stola, o come dice Landolfo il Giovine: heccum la stola, heccum la stola; dal che vedesi che anche allora si parlava una lingua simile a quella che oggidì si parla. Eravi in Milano un prete che aveva nome Liprando. Egli era zio di Landolfo Juniore, e convien dire che fosse di genio