Pagina:Storia delle arti del disegno III.djvu/75


sull’Architettura degli Antichi. 57

    questione, cioè che Plinio parli delle volute ioniche, e loro spirale. Il sarei portato a negarlo assolutamente; parendomi troppo., ch’ei parli del toro della base, non già dal capitello: primieramente, perchè nel libro stesso cap. 24. sect. 56. chiama anche spira il toro, o base, ditinguendolo dal cappello: primum voummnis spiræm subaitæ, & capitula addita; in secondo luogo, perchè spira si chiama la stessa parte anche da Vitruvio loc. cit., da Polluce lib. 7. cap. 27. segm. 121., da Giuseppe Flavio Antiq. lib. 15. cap. 11. n. 5., e da Festo v. Spira; all’opposto la voluta è detta voluta dallo stesso Vitruvio. Ora con qual coraggio, e fondamento vorremo dire, che il proprio, e primitivo significato di spira fosse la voluta, contro il consenso universale degli scrittori, che hanno parlato di quelle materie? Perchè non fare piuttosto un’altra riflessione più giusta, e dire che si spira sia stato detto il toro, perchè sia fatto a modo di un cerchio attorno al fusto della colonna, o della base, come pare che voglia significare Festo loc. cit. scrivendo: Spira dicitur & basis columnæ unius tori, aut duorum, & genus operis pistorii, & funis nauticus in orbem convolutus; ab eadem omnes simuitudine? Oppure perchè vi fosse fatto sopra qualche lavoro a tortiglione, come tante se ne trovar o di basi intagliate in diverse maniere, alcune delle quali possono vedersi presso Piranesi Della magnif. de’ Rom. Tav. 9. e segg.? Chi sa poi che su questo lavoro non facessero i loro emblemi Sauro, e Batraco, e in maniera da non essere troppo esposti a cancellarsi col tempo, contro ciò, che pare inverosimile al nostro Autore loc. cit. pag. 270., supponendo, che liscio fosse il toro ? Se non che, potrebbe sospettarsi del racconto di Plinio stesso, che fosse una popolare diceria; o almeno si potrà dire, che quei due artisti mettessero la lucertola, e la ranocchia nelle loro opere indistintamente, come un simbolo dei loro nomi per un piacere, che ne avessero; non perchè loro fosse proibito di mettere il nome in lettere su que’ due tempj; perocchè oltre il toro, di cui parla Plinio, e il capitello di s. Lorenzo, si vedono gli stessi emblemi su di un rosone trovato alcuni anni sono negli scavi della villa di Cassio a Tivoli, ora nel Museo Pio-Clementino, dato dal signor abate Visconti nel Tom. I. di esso, Tav. A. n. 10., e ripetuto da noi qui appresso. È da osservarsi però, che su questo rosone vi è anche un’ape, o altro insetto, che per essere in parte rotto non può ben riconoscersi, da cui si deve arguire, o che Sauro e Batraco avessero per compagno in quella fabbrica, se vogliamo crederla opera loro, un altro., che per suo emblema vi avesse posta l’ape, come significata dal suo nome; oppure che quelli emblemi tutti avessero qualche altra significazione ignota a noi, come è probabile, che l’avessero tante figure poste ai capitelli, delle quali si parlerà in appresso nel Cap. iI. §. 11.; o finalmente, che fosse un capriccio degli artisti, come tanti altri ornati, de’ quali non si può dare una ragione scientifica. Il Passeri Thes. gemm. astrif. Tab. 146. porta una gemma, in cui ad alcune stelle vedesi unita una ranocchia, una lucertola, ed un granchio, che potranno avere qualche significazione astronomica, come pensa il citato autore, o altra incognita.
    Ma tutti questi, e i seguenti raziocinj anderanno a vuoto se noi qui aggiugneremo che prima di farli, il nostro Autore avrebbe dovuto esaminare, se il capitello di s. Lorenzo e per la sua forma, e per lo stile del suo lavoro possa dirsi dei tempi di Augusto. Io per me lo credo di qualche secolo dopo, quale è creduto dai buoni architetti, che lo hanno considerato, come accenna anche il signor abate Raffei Saggio di osservaz. sopra un basso ril. della villa Alb. n. 6. pag. 29., quantunque per il passo di Plinio si mostri egli propenso all’opinione di Winkelmann. Supponendolo pertanto di più basso tempo, si potrà credere che i detti animali siano simboli dei nomi degli artisti, che lo hanno fatto, o del padrone della fabbrica, alla quali serviva, secondo l’usanza provata dallo stesso Raffei con tanti esempj, alcuni de’ quali riportano il Fabretti Inscript. cap. 3. num. 37. pag. 186., e Buonarruoti Osservaz. sopra alc. framm. ec. Tav. 9. fig. 4. pag. 74., di mettere simboli nelle monete, sepolcri, ed altri monumenti, allusivi a quelli, ai quali appartenevano.
    Credo per ultimo, che sia qui opportuna cosa il ricercare, se veramente presso i Greci, e presso i Romani vi sia stata legge alcuna, la quale proibisce agli architetti di mettere il loro nome su i pubblici edifizj, ai quali presedevano. Il signor Seigneux de Coirevon Lettr. sur Hercul. Tom. I. let. 4., pag. 109. seg. tratta questa questione, asserendo che ai tempi di Adriano fosse fatta una tal legge, e numerando quei pochi architetti, che hanno posto il loro nome sulle fabbriche fino a noi conservatesi almeno in qualche parte. A questi io aggiugnerò un certo ..anio Dione, di cui si fa menzione in un architrave del tempio di Cerere fra i rimasugli d’antichità dell’antica Capena, ora Civitucula, architetto, che fiorì ne’ migliori tempi delle belle arti, come si rileva dagli avanzi del suddetto tempio. Si veda il ch. monsignor Galletti Capena munic. de’ Rom. pag 11. Ma per la supposta legge di Adriano avrei desiderato vederne qualche prova. Io non ho saputo trovarne menzione presso gli scrittori della vita di quell’imperatore; né li trova registrata fra le leggi romane o quella, o altra che siasi a tal proposito; non potendosi esten-

Tom. III. H dere