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di W i n k e l m a n n. | 217 |
delle vivande di quello non entrano mai limoni; e questo dice, che i Romani gli abborrivano per cagione dell’agro, e che non ne fecero altr’uso, che di porli fra i vestiti. Il limone fu portato quasi nello stesso tempo a Roma, quando Lucullo portò seco i cerasi dal Ponto1. In fatti in tante pitture di frutti a Portici non si scuoprono limoni. Quanto poi appartiene al maneggio dell’arte, gli Accademici di Sua Maestà pretendono, che la pittura sia stata fatta a tempera, stando in ispecie sulla fede dell’architetto di S. M. Luigi Vanvitelli, che da giovane ha maneggiato anche il pennello; ma vi vorrebbe per ciò un poco più di prova. Io so per certo, che sull’intonaco antico colorito non si è fatta veruna analisi chimica, metodo infallibile per certificarli; ma bastava almeno dire, che il colore fregato si levava dal muro: farebbe ciò servito per appagarli all’ingrosso. Ma adesso non si può più fare veruna prova per essersi inverniciate le pitture; e la vernice ha la proprietà di staccare i colori a vista d’occhio, di maniera che Achille2 può correre rischio di perdersi fra pochi anni. L’argomento principale, su cui si fonda quell’opinione, è lo staccamento de’ colori, e lo scorgersi i tocchi di pennello rilevati guardando le pitture incontro al lume: ma tanto l’uno, quanto l’altro si osserva nelle stanze di Raffaello al Vaticano; e si tocca con mano il rilievo del pennello nelle nozze Aldobrandine, già levate dalle antiche terme di Tito3. Non vado a contrariare, che la tempera non potesse conservarsi4; perchè
Tom. III. | E e | n’eb- |
- ↑ Ne portò la pianta. Ateneo lib. 2. cap. 11. pag. 50.
- ↑ Tavola 8.
- ↑ Vedi Tom. iI. pag. 54. §. 6.
- ↑ Nel Giornale, ossiano Notizie sull’antichità, e belle arti di Roma, che va pubblicando il ch. sig. abate Guattani, al mese di febraro di quest’anno 1784. pag XV., il signor dottore Niccola Martelli con una sua lettera ci assicura di aver qui in Rema trovata la maniera di restituire il colore a que-
Teofrasto Hist. plant. lib. 4. cap. 4., ove dice avea cominciato a mangiarsi al tempo degli avi suoi. Dioscoride poi, che scriveva dopo Teofrasto, lib. 2. cap. 166. dice, che anche il volgo conosceva questo frutto, e lo mangiavano principalmente le donne per voglia. Plinio dunque dovrà ristringersi a Roma, o ad altra parte quando lib. 12. cap. 3. sect. 7. lo dice usato per solo controveleno, e non coltivato fuori della Persia, e della Media.