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212 | Storia dell’Arte presso i Greci |
§. 32. Fra gli scolari di Mirone Plinio annovera certo Licio, di cui opera era la statua d’un fanciullo che soffiava nel
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κότα ξυναναστησομένῳ μετὰ τῆς βολῆς· οὐκ ἐκεῖνον, ἦ δ᾽ ὅς, ἐπεὶ τῶν Μύρωνος ἔργων ἓν καὶ τοῦτό ἐστιν, ὁ δισκοβόλος ὃν λέγεις. Num Discobolon (oppure illam statuam, qui discum jacit) dicis, inquam ego, incurvantem se ad jaciendi gestum, reflexo vultu ad eam (manum), quæ discum fert, paullum submisso pede altero (sinistro), ut in ipso statim jactu surrecturus una videatur? Nequaquam, inquit ille, quandoquidem & unum ex Myronis operibus est ille Discobolos, quem dicis. La parola τὴν δισκοφόρον che veduta la figura resta chiaramente spiegata per la mano, che porta il disco, riportando infatti la destra della statua il disco dal punto più lontano, a cui polla stendersi nell’atto di volerlo scagliare, avea data la maggior tortura agl’interpreti, e annotatori. Alcuni l'aveano tradotta in eam partem; e perciò Gesnero nella nota pretendeva insulsamente, che la figura guardasse la meta (quasi che la meta potesse portare il disco), avendo prima detto, di non poter credere, che guardasse una donna, la quale gli presentasse il disco. Solano, e Reitzio hanno pensato, che debba intendersi della mano, che porta il disco; e la loro congettura è stata confermata dalla statua; ma poi non si combina colla medesima il signor Reitzio, traducendo nella sua edizione, di cui ci serviamo, paullum submisso genu altero, le parole ἠρέμα ὀκλάζοντα τῷ ἑτέρῳ, per intendere così del ginocchio ciò, che va inteso del piede, come anche le aveano intese, e tradotte bene altri prima di lui. Per ultimo è chiaro, che τῷ ἑτέρῳ altero pede, secondo piede, è il piede sinistro.
Con questa descrizione di Luciano potremo avanzarci a far vedere, che lo descrive eziandio non equivocamente Quintiliano Inst. orat. lib. 2. cap. 13. Egli vuol provare, che sia bene talvolta di uscire dallo stile solito, e dall’ordine comune nelle orazioni per dar loro con certa novità una specie di risalto, che non dispiace agli uditori. A tal fine adduce il paragone degli statuarj, e de’ pittori, i quali sovente variano lodevolmente dal solito l’atteggiamento, gli ornamenti, il volto delle figure. Imperocchè, scrive, un corpo ritto, e senza mossa (come si è veduto nel Tomo I. essere la maggior parte delle figure egiziane) ha ben poca grazia; come se venga rappresentato col viso di facciata, colle braccia abbassate, e stese, i piedi uniti, e da questi al capo sia tutta la figura dritta, dura, e come interizzita. All’opposto quel torcimento, e per così dire, quella mossa, dà una certa azione alle figure, e le anima in qualche modo. Cosi le mani non devono essere fatte tutte in una maniera, e devono rappresentarsi variamente i sembianti. Alcune figure veggonsi nell’atto di uomo, che sia in procinto di correre, altre d’uomo, che siede, o s’appoggia; altre sono nude, altre vestite, ed altre in parte nude, e in parte vestite. E per verità, che v’è di più storto, e ricercato, o forzato del Discobolo di Mirone? Eppure chi volesse criticarlo, e riprenderlo come un’opera meno giusta, non farebbe vedere che poco intende l’arte, nella quale principalmente è degna di lode quella stessa novità, e difficoltà? Expedit sæpe mutare ex illo constituto, traditoque ordine aliqua, & interim decet ut in statuis, atque picturis videmus variari habitus, vultus, flatus. Nam recti quidem corporis vel minima gratia est. Nempe enim adversa sit facies, & demissa brachia, & juncti pedes, & a summis ad ima rigens opus: flexus ille, &, ut sic dixerim, motus, dat actum quemdam effictis. Ideo nec ad unum modum formate, manus, & in vultu mille species. Cursum habent quidam, & impetum; sedent alia, vel incumbunt; nuda, hic, illa velata sunt; quidam mixta ex utroque. Quid tam distortum, & elaboratum, quam est ille Discobolos Myronis? Si quis tamen ut parum rectum improbet opus, nonne is ab intellectu artis abfuerit, in qua vel præcipue laudabilis est illa ipsa novitas, & difficultas? In questo dettaglio di Quintiliano chi non vede preso di mira il Discobolo di Mirone, come quello, che nel suo genere poteva solo dare la miglior prova di quali tutti quei caratteri insoliti, che dagli artisti venivano espressi nelle figure; e che egli comprendeva in poche parole col dire, che figura più storta, e ricercata di quella di Mirone al mondo non v’era; e ciò non ostante non poteva biasimarsi come difettosa.
Per provar quindi, che la statua in marmo non fui che una copia, si possono recare non pochi argomenti, e ragioni, che non lasciano luogo a questione. Tutti gli antichi scrittori, che nominano qualche opera di Mirone, e la materia, in cui era lavorata, non parlano di altra materia, che di bronzo. Veggansene molti riportati da Giunio Catal. archit. ec. pag. 127. seg. Fra questi, alcuni pare che escludano ogni altra materia, come Petronio Satyr. p. 322.: Myron pene hominum animas, ferarumque ære comprehenderat, e Tzetze Chil. 6. hist. 194. v. 371.: