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134 VITA DI PIO VII

ceasi in essa, che il papa nulla temeva e nulla aveva a temere, ma intanto i romani lo vedevano fuggitivo. Parlava di negato passaggio alle truppe, di guerra imminente in Europa, delle triste conseguenze che potevano derivare da un passaggio concesso, per cui l’ accortezza romana doppiamente paventava gli effetti di un passaggio violento: dichiaravasi finalmente che il papa recavasi in una città dello stato ma, per le disposizioni date al sacro collegio e agli ambasciatori, sapeasi che tutti lo avrebbero raggiunto o a Firenze o a Genova. Ad onta però di tutto questo Roma si mantenne tranquilla e l'ordine pubblico non venne turbato. Grandi erano i dubbi, ma a confortare gli animi e a ribadire nei cuori la sicurezza sorgeva in tutti spontaneo il riflesso che non abbandona Iddio la sua chiesa, che il cuore di Pio era di forti tempre, che l'uragano, in presenza dei principi collegati in un patto, quello di pacificare l'Europa, non poteva esser lungo e pericoloso. A coloro per altro che o meritevoli o no domandavano onorificenze cd impieghi, che non ottennero, parve opportuno il momento di vendicarsi di chi stavasi al timone dello stato. A creare imbarazzi scrissero a Consalvi, che in Vienna sedea nel consiglio europeo, Roma in preda ai disordini, detestato il governo, grande il malcontento dei popoli tornati all’obbedienza del papa: è ben facile, conchiudevano, ad essi il seguir le parti di Gioacchino promettente un'Italia unita, larga costituzione, esteso commercio, uniformità di leggi e tutte le dolcezze, di cui i napoleonidi erano facili promettitori. Affliggevasi Consalvi incontro a tante minacce che credeva fondate e stimolava il collega a porre immediato riparo a tanta colluvie di mali. Freddamente rispondevagli il pro-segretario di stato: attendesse l'esito degli avvenimenti, vedrebbe mal fondati i sospetti, indubia la fede dei sudditi, sicura la tranquillità pubblica, lontani i pericoli. Gli eventi confermarono le asserzioni.

III. Non era giunto a Viterbo il pontefice quando a chiarire la mente del re venne opportuna una lettera da un generale napolitano diretta ad un ministro del regno.