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Il cav. Collegno ed il conte Santarosa furono i primi ad aver sentore dei secreti maneggi del principe. Santarosa volle conoscere ciò che restava a farsi, indagò egli stesso le cose e non tardò a chiarirsi, ogni tentativo esser fatto impossibile nella capitale. Corre ove era atteso dagli amici. Orrendo giorno! l’affanno della sera del 7 si rinnovava! Non più speranza: i mezzi dei quali ancor poteasi disporre non offrivano probabilità di successo, tentare una rivoluzione il di cui esito si rimanesse incerto per soli cinque o sei giorni, sarebbe stato lo stesso che consegnare la patria agli Austriaci. Dovremo noi dunque, esclamavano, rinunziare al frutto di tante fatiche e rassegnarci ad essere testimoni inerti dell’oppressione d’Italia? Collegno nella sua disperazione non fea che rimproverare sè stesso di aver creduto al principe la sera del 7 marzo.

Era pur forza decidersi: i congiurati credettero necessario il sacrifizio di loro progetti agli interessi della patria. Messi fidi e solleciti furono spediti ad Alessandria, Fossano e Vercelli a renderne instrutti gli altri capi.

Se non che era nei fati del Piemonte, dover dividere le sventure di Napoli, di quel paese che si bramava far salvo, e di assaporare per pochi giorni la libertà. Mi sarebbe difficile investigare le cause dei fatti che addussero lo scoppio di una rivoluzione cui s’era per allora rinunziato. — Sul mattino del giorno 10 un’improvisa novella si spande a Torino; la guarnigione di Fossano s’è messa in marcia, quella di Torino ebbe l’ordine di prender l’armi. E frattanto