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trepidezza nella campagna del 1812 e di perspicace condotta militare in quella invernale sotto il vicerè d’Italia nel 1814; ardito e di mente fredda ad un tempo, profondo conoscitore degli uomini, sapea dirigerli. Tale era colui cui la sorte poteva aver serbato gli allori di un Washington dell’Italia settentrionale, se propizia, od il non meno glorioso destino di un Kosciusko, se avversa; ma fatalmente educato alla scuola di Buonaparte, titoli e ricchezze anzitutto ossequiava, e la gloria non era per lui che un accessorio della vita. E per maggior danno, dotato di straordinaria acutezza di mente, ambiva l’occasion di spiegarla; nel trattar le faccende, l’aiuto di fortuna sprezzava, il suo ingegno a tutto bastante riteneva. Ma a’ giorni nostri la soverchia avvedutezza, ed i disegni troppo complicati della mente, sono lo scoglio cui vanno ad infrangersi i grandi nomi. Le passioni sovente di per sè stesse a più diritta e sicura via ne conducono.
È da sapersi che Gifflenga niuna fiducia aveva nei Napoletani, e conoscendo, accorto qual era, come l’esito di nostra rivoluzione dipendesse totalmente dai loro successi, non è da stupirsi se poco a grado gli andasse di porvisi alla testa: quindi è che i miei rimproveri non si riferiscono che al suo contegno dopo che venne consumata la rivoluzione, quando cioè il dovere di piemontese e d’italiano splendeva di tanta luce, da non lasciar via di mezzo ad uomo amante della patria e di sua fama geloso.
Ma se i cospiratori non trovarono un capo, potevano però, e non senza fondamento, calcolare su di