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per aver luogo, moltissimi, ben alieni dall’aspettarsela, non iscorgevano che una vana formalità nelle parole dirette dal governatore ai granatieri, nell’atto che uscivano dalla caserma: «ricordatevi che abbiamo a far con dei ragazzi.» Parole che il governatore, trovatosi sul luogo, avrebbe dovuto meglio provare che gli erano uscite dal cuore. Ne giudichi il lettore: atterrate le porte, si assalgono colle baionette gli studenti che, inermi, sono dispersi all’istante, e solo qualche sasso lanciato dalle sovrastanti gallerie annunzia debolmente un’ultima resistenza impossibile. In quel momento nulla di più facile che impedire lo spargimento di sangue e far rientrare nell’ordine ogni cosa. Ma questo non era il conto di certo partito. Quei miseri sono incalzati, inseguiti su per le scale, nelle scuole, sotto le cattedre dei professori, e dovrò dirlo? fin nella chiesa appiè dell’altare barbaramente trucidati. In mezzo agli orrori di così infame macello è pur dolce il poter citare dei nomi senz’arrossirne. Il colonnello Ciravegna rattenne i suoi granatieri, ed avvolto nel suo mantello, favorito dall’alta statura salvò più d’una vittima. Il conte Cesare Balbo figlio del ministro, il cav. Angelino Olivieri, si precipitarono nel più folto della mischia ad arrestare il furor dei soldati *.
Venticinque studenti feriti vennero trasportati all’ospedale, a molti altri che meno gravemente lo furono riuscì sottrarsi alle unghie dei cavalli, alle scia-