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Io devo abbattere vittoriosamente quest’ultima obbiezione. Addimostrata la giustizia dei nostri disegni dalle interne condizioni del paese e dalla ragione di Stato, mi resta a far conoscere che arditi sì, ma temerari non erano.

Comincierò dall’osservare che una impresa vuol essere tentata anche con minima probabilità di successo, ogni qualvolta l’esitare possa arrecar grave perdita. Ciò posto, non è egli evidente, che standosi il Piemonte ad osservare inoperoso la disfatta dei Napoletani per parte degli Austriaci, anzichè tentar d’impedirla, la casa di Savoia avrebbe perduto ogni influenza in Italia, e sarebbe rimasta, come già dissi, nè mi stancherò di ripeterlo, schiava dell’imperatore? E non sarebbe in tal modo svanita per noi la speranza di migliorare le nostre istituzioni politiche?

Il successo dipendeva, egli è vero, da un futuro avvenimento che non era in nostro arbitrio, la resistenza cioè dei Napoletani agli Austriaci. Non parlerò di vittorie, illusione lo sperarlo! ma dovea dunque sembrar così strano che un’armata regolare di 50 mila uomini, sostenuta da 60 mila di milizie cittadine, armati, equipaggiati ed instrutti, potesse far fronte per qualche mese soltanto ad un’armata austriaca, sostenere dei sanguinosi combattimenti, presentare insomma all’Italia lo spettacolo d’una guerra e non quello di una improvvisa disparizione?

La nostra salvezza era riposta in quella resistenza. Al più tardi otto giorni dopo la rivoluzione avrebbe potuto l’armata piemontese, forte di 20 a 25 mila uomini, entrare in Lombardia, ove l’avrebbe poco