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maggior parte di essi però riconobbe nella loro rivoluzione una di quelle grandi occasioni che la Provvidenza offre alle nazioni conculcate, di riprendere luminosamente il lor posto sulla scena del mondo politico. Altri pensavano l’Italia non essere abbastanza matura a guerra d’indipendenza: i lumi, secondo essi, non erano peranco diffusi in tutte le classi della società, una gioventù ardente di patrio amore, cui non poteva per ora consacrare che il braccio, più tardi pervenuta a quelle alte condizioni che le cariche e le fortune dei padri maturavanle, si sarebbe trovata alla testa di una rivoluzione, ed avrebbela signoreggiata. E mal non s’apponevano, ma il primo passo era fatto. I Napoletani aveano rivendicato lor diritti, erano nostri fratelli; dovere, onor nazionale non consentivano si abbandonassero. Se non che frattanto un certo numero d’uomini si appartava dalla grande maggioranza piemontese, tutta, come dissi, animata da vivissima brama di una guerra d’indipendenza: i quali dell’avvenire giudicando colla scorta del passato, niuna fiducia riponevano nei Napoletani, e le armi loro di una resistenza qualunque nel giorno della pugna capaci non speravano. Noi al contrario eravamo più fidenti, chè l’indole nostra non ci permetteva di prevedere il futuro quale avvenne.

La discrepanza delle opinioni sulla costituzione meglio adatta ai bisogni del paese, non rattenne i liberali Piemontesi dall’unire animosi loro sforzi, a far palese lo stato delle cose al governo. Un indirizzo del popolo al re ed altro brevissimo scritto col