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Tocco finalmente un’epoca di cui l’Italia ricorderà lunga stagione: la rivoluzione di Napoli. Non è mio intendimento rintracciarne le cagioni e tesserne la storia; osserverò soltanto che fu giusta e legittima, perchè estremamente dispotico il governo di Napoli; e non risparmierò una mentita a chiunque volesse dar ad intendere, che un tal governo, comunque arbitrario, reggeva con saviezza lo Stato. Non è già dalla utilità o magnificenza di qualche pubblico stabilimento innalzato nelle capitali che si dee misurare la floridezza di un popolo: sono le provincie, sono i luoghi più discosti dal centro del governo che voglionsi interrogare sull’esecuzione delle leggi, sulla sicurezza individuale, sul comodo, sull’onesta indipendenza dell’agricoltore, dell’artigiano. Per i grandi non vi sono mai mali troppo gravi, quando loro basti il cuore di contemplare a ciglio asciutto le miserie dei concittadini e non rifuggano da viltà di mezzi per alleviare il peso di servitù.

Del resto, se il governo di Ferdinando I si astenne da modi violenti e tirannici, esuberente ricompensa gliene venne dall’indole e dalle circostanze della rivoluzione napoletana. Quegli uomini dalle ardenti immaginazioni, cresciuti alle stragi delle ultime vicende politiche, fecero prova di forte e generoso animo, mostrando di aver obliato l’illustre e prezioso sangue di cui videro rigata Napoli nel 1799; e con cui in quell’epoca quello stesso principe di benedizioni or coperto, perchè giudicato propenso ai voti del popolo, avea segnato il suo ritorno fra loro. Ai plausi, alle acclamazioni dei Napoletani si sarebbe ravvisato