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lo avesse maltrattato, si allontanava dalla Francia con dolore perchè vi lasciava un amico affettuosissimo. Partì con l’animo conturbato, quasi fosse presago che lo attendevano sorti più triste. Il desiderio della patria si faceva più amaro quanto più essa rimaneva lontana. Il pensiero di non rivedere la famiglia, e di non potere da sè stesso educare a un’idea generosa i diletti figliuoli, empiva di malinconia il suo povero cuore.
Toccò le spiaggie inglesi ai primi di ottobre del 1822, e quindi si recò a Londra, che era per lui un vasto deserto. Senza amici, senza fortune, visse giorni di malinconia amarissima. Le sciagure presenti lo riconducevano naturalmente a pensare al passato. Scrivendo un saggio sulla letteratura italiana, ammirava la forte educazione che fece la valente e generosa gioventù fiorentina, la quale nel secolo XVI avrebbe salvato la patria, se poteva salvarsi, ma che salvò almeno l’onore. “Noi uomini del secolo XIX, diceva, non abbiamo potuto neppure consolarci di questo. Quanti rimproveri io debbo fare a me stesso dei tanti errori commessi in trenta giorni di carriera politica!... Il mio cuore avanti l’epoca della nostra rivoluzione era stato crudelmente straziato; non so quel che sarebbe divenuto se la febbre italiana non mi avesse preso. Io renderò giustizia a me stesso; non ho conosciuto un momento nè l’interesse, nè la paura, nè alcuna brutta passione; ma restai al di sotto delle circostanze. A misura che gli avvenimenti si allontanano da me, la rimembranza de’ miei errori si presenta più viva alla mia immaginazione. Io penso sempre fremendo allo sciagurato affare di Novara, in cui l’armata costituzionale fu messa in rotta sì presto. Questa è la seconda ferita, che sanguinerà sempre e che mi fa miseramente languire.... Ho quarant’anni: ho molto desiderato la felicità, ed aveva un’immensa facoltà per sentirla: ma il mio amaro destino si è posto a traverso.”