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dimeno credette il governo dever tentare la fortuna avventurando una marcia su Novara. Ed invero la nostra posizione era penosa, violenta, e bisognava anzi tutto sortirne, se si voleva ottenere una pace onorevole. Che dov’anco questa ci fosse stata negata, fra tante disavventure un ultimo raggio di speranza spuntava: le truppe di Novara e di Alessandria avrebbero potuto fraternamente abbracciarsi, e strette sotto di una sola bandiera varcare il Ticino, piombar sul nemico. Ad ogni passo avrebbero incontrato un alleato, ed una novella armata si sarebbe ingrossata a lor spalle. Forse chi sa che Napoli, a nostra audace mossa, non avesse mostrato a ricordarsi del 1282; forse l’Italia avrebbe stordito l’universo col sublime attentato di una invitta guerra nazionale.

Che se a taluno sembrasse sconveniente la nostra spedizione di Novara, avuto riguardo alle trattative di pace intavolate col conte di Mocenigo, osserverò primieramente che appunto da un successo dell’una potea dipendere la miglior riuscita delle altre, perchè così facendo soltanto n’era dato aspirare a condizioni le quali ci mettessero al coperto dalle vendette dell’inasprita monarchia; risponderò in secondo luogo che la giunta non erasi altrimenti obbligata ad arrestare sue operazioni militari, e finalmente, ciò che non ammette replica, essere stato il conte Della Torre primo a riprendere sue ostili viste contro la capitale. Infatti, passata la Sesia, fissato il quartier generale a Vercelli1 spingeva di là sue colonne sulla

  1. Fu quivi ch’ebbe luogo una conferenza fra San Michele, Lisio e il conte Della-Torre: l’esito fu quale poteva attendersi nullo. Il conte