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che le anime forti conservano sempre. Cedè alla necessità, quantunque sentisse, secondochè egli scriveva il 12 giugno, che Alansone era per lui una delle più triste necessità, degli 84 Dipartimenti di Francia. Nella sua solitudine meditò un’opera che dovea intitolarsi: Della libertà e de’ suoi rapporti colle forme di governo.
Sebbene vivesse ritiratissimo, e a tutti apparisse inoffensivo il suo contegno, e non pigliasse parte nessuna alle cose di Francia, pure la polizia non gli dava un momento di pace. Un suo amico, il colonnello Fabvier, gli fece sapere che si pensava ad arrestarlo di nuovo e a restituirlo al Piemonte: quindi lo consigliava a fuggire in Inghilterra, e si offriva di fornirgliene i modi. Fuggire per Santarosa era quasi un confessare che dubitava del proprio diritto: reputava che adoperando così avrebbe dato la ragione contro di sè a quelli che avevano il torto: per conseguenza ricusò le offerte amichevoli e rimase al suo posto.
In questo mezzo alla Camera dei Deputati si agitò la questione degli esuli. Molti membri dell’opposizione ne difesero eloquentemente la causa, e mossero gravi lamenti contro le indegne maniere tenute dalla polizia coi rifugiati italiani. Il ministro Corbière, mentendo impudentemente come ai tempi nostri usava il Guizot, rispose che i refugiati italiani non erano dell’avviso dei loro difensori, e che tutti concordemente si lodavano dei modi tenuti dal governo francese a loro riguardo. Queste parole slealissime parvero al Santarosa un incomportabile insulto, e credè che l’onor suo e quello de’ suoi compagni di sventura l’obbligassero a protestare altamente. La qual cosa egli fece pubblicando una lettera di nobile e fiero linguaggio. La polizia ne rimase stizzita. Egli, contento di aver fatto il proprio dovere, e di avere resa testimonianza alla verità, si apparecchiò a tutte le