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XII
 
 



Questo affare durò per due mesi. Il Santarosa se ne stava in prigione tranquillo sotto l’usbergo della buona coscienza. La parola di estradizione era stata pronunziata: non era lungi il caso di essere restituito al Piemonte, cioè mandato al patibolo. Egli con forte animo si preparò ad ogni evento. Tutti quelli che lo videro erano compresi di riverenza per lui: e il carceriere gli pose grandissimo affetto.

Dopo due mesi di un processo ridicolo, fu concluso, che non vi era luogo a procedere sulla prevenzione del complotto, e fu fatta lode all’imputato della lealtà e della franchezza delle sue confessioni. Pareva quindi che si dovesse lasciar vivere tranquillamente a Parigi. Ma la polizia si oppose energicamente, e non volle neppure che subito fosse scarcerato. Allora la corte regia intervenne, e pronunziò formalmente la liberazione del prigioniero, se non vi era altra causa di arresto. Vi furono ostacoli anche alla pronta esecuzione di questo secondo giudizio: e dopochè il Santarosa fu dichiarato dalla giustizia superiore a qualunque prevenzione, e per conseguenza libero, un decreto ministeriale ordinò che fosse rilegato in provincia, sotto la vigilanza della polizia. Gli destinarono a prigione Alansone, piccola città nel Dipartimento dell’Orne. Contro questo atto vile e malvagio egli protestò con tutto il suo sdegno, e chiese di rimanere a Parigi o di avere un passaporto per l’Inghilterra. Non gli fecero niuna risposta, e lo condussero immediatamente ad Alansone con altri Piemontesi arrestati con lui. Dovea ogni giorno presentarsi alla polizia a render conto di sè, altrimenti era minacciato di trattamenti durissimi. Questa ingiustizia della rilegazione in un luogo dove non poteva avere nè libri, nè il conforto della presenza di un amico, gli appariva sulle prime una spaventosa disgrazia. Ma non si lasciò togliere la quiete