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della rivoluzione di roma | 377 |
di beni rustici provenienti dalle corporazioni religiose, e questi in enfiteusi perpetua contro la corrisposta di un discreto canone; ferme bensì rimanendo (aggiungeva il decreto) le disposizioni annunciate sulla congrua dotazione del culto, del ministero pastorale dei parrochi, e degli stabilimenti di pubblico interesse.1
Doveva ancora aver luogo il giorno 15 di aprile la votazione per eleggere la nuova municipalità, ma non essendosi presentato un numero sufficiente di elettori ai collegi, convenne protrarla al giorno 19.2 Di ciò per altro parleremo meglio a suo luogo.
Nella mattina poi di detto giorno si trovò affisso per le vie di Roma un indirizzo manoscritto e diretto ai cittadini, col quale si declamava contro l’inerzia loro, dicendo:
«che volevasi distruggere Roma, e che lo sarebbe, se l’apatico contegno non si cangiasse in attiva e coscienziosa vigilanza. La vita, l’onore, e le sostanze degli onesti cittadini, e la distruzione dei migliori monumenti, essere destinati (dicevasi) a sfogo della ferocia di pochi disperati e perversi, non però Romani.» Finiva collo eccitare a mantenere l’ordine, che assicurava vita, sostanze, e onore.
Questo foglietto fu letto e poi stracciato, e non ebbe altro seguito.3
Ma il Monitore del detto giorno pubblicò, e per le vie di Roma leggevasi, un proclama del triumvirato, col quale invitavansi i cittadini italiani a recarsi in Roma per riconcentrarvi la vita repubblicana; e ciò riferiamo in prova ulteriore di quanto dicemmo in principio di questo capitolo.
Il proclama incominciava così:
«Tradito il Piemonte, caduta Genova, turbata da tentativi di reazione colpevole la Toscana, la vita, la vera