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nacciati, espulsi; frementi agitavansi i miti Toscani del contado, i pacifici ed onesti cittadini di Firenze; ed in sui primi di aprile deliberavasi contrariamente alla unione con Roma. Non si comprendeva che cosa volesser quegli ingovernabili Toscani. Non gran duca, non Roma sorella, non più Guerrazzi il quale già era in uggia a chi volea scapestrare senza freno, alla cui vita attentavasi, e che chiamavasi apertamente il tiranno di Firenze.1 A questi estremi erasi giunto, quando stanchi gli onesti e incorrotti contadini e l’onorevole municipio della capitale toscana, reclamarono e ristabilirono il governo gran ducale nella prima quindicina di aprile.

Questo era lo stato delle cose in quel tempo; dal che conseguiva che salvo Venezia resistente tuttora, ma segregata dal resto, la rivoluzione in Roma soltanto proseguiva animosa e incontrastata, e a Roma chiamava gli avanzi delle rivoluzioni debellate nelle altre parti d’Italia.

Propostoci noi di scrivere la storia di Roma soltanto, non tocchiam che di volo queste tristi faccende; e lasciando ai nostri lettori di attingerne le notizie da chi trattolle distesamente, riassumeremo nel presente capitolo la narrazione di ciò che occorse in Roma dal 9 al 20 aprile, giorno in cui il pontefice da Gaeta emise la famosa allocuzione ch’è forse uno dei più gravi documenti che ci ha tramandato la storia.

Incominceremo con un atto poco piacevole, una protesta dei sotto uffiziali dei due reggimenti de’ dragoni contro il ministro della guerra il quale non accordava loro i passaggi o gli avanzamenti di grado. Designamo il fatto senza interloquirvi, ma sembraci che in tempi regolari atti o proteste di corpi armati non dovrebbero essere ammissibili.2

Lo stesso giorno 9 scioglievasi con un decreto lo stato maggiore della guardia nazionale.3 Secondo poi il Monitore,

  1. Vedi Farini, vol. III, pag. 333.
  2. Vedi la Pallade, n. 516.
  3. Vedi il Monitore del 9, pag. 312.