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il più meraviglioso Italiano, anzi l’uomo più straordinario che mai nascesse in terra.

Egli conosceva di quelle lingue tutta l’indole, il tessuto, le proprietà speciali, i trapassi, i nodi, gli sviluppi, il color vivo e le sfumature, i sensi propri e i traslati, il parlar famigliare ed il pubblico.

Dettava poesie in peruano, chilese e californio, ma con concetti arditi e colorite immagini, sicché ti ritraevano al vivo il naturale di quelle tribù selvagge.

Con pari naturalezza poi con la quale sapeva imitare le dizioni e i concetti dei selvaggi americani, sapeva esprimere i pensieri e le idee dei negri del deserto di Sennar e del Rio azzurro nell’Africa. Esso faceva recitare agli alunni negri di propaganda fide le sue poesie nelle lingue d’Angola, della Cafreria, del Congo, degli Ambezes e del Zanguebar, ed agli alunni peguani e della Cocincina quelle nella lor lingua birmana e talapuina o sacra. Ei componeva versi eziandio nelle lingue della Polinesia indiana e cinese.

Con pari garbo ed eleganza facea gustare i canti finici dei Samoiedi, dei Laponi, e di molte brigate erranti della Siberia da Tobolsk sino all’ultimo sprone orientale del Kamciatska. Lo stesso faceva delle poesie dei Tartari Mandciuri, dei Mongoli, dei Panduri, dei Cosacchi, dei Turcomanni, degli Usbeki, e di altri popoli intorno al Caspio e all’Urall.

Nè la lingua soltanto conosceva di ciascun popolo, ma era dotato di una facilità maravigliosa nello esprimere i suoni svariati, gli accenti, le asprezze, le dolcezze, le rotondità, le acutezze, gli addoppiamenti, gli sdruccioli e le pause. Sapeva anche esprimere i suoni palatini, i labiali, i dentali, i gutturali, i profondi, gli squillanti, gli spiccati e i gorgogliati, secondo l’uso indigeno. E tutto ciò senza che in lui s’ingerisse confusione veruna, passando da una lingua all’altra con rapidità maravigliosa.

Era un prodigio; una maraviglia il sentirlo la sera esercitarsi cogli alunni di quel collegio, e intertenersi con loro