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liana erano eletti, ma il Guerrazzi col suo petto di bronzo la respingeva, e non era solo a non volerla. Ove fosse riuscita questa unificazione, ch’era nei voti dei repubblicani, era da ritenersi che la Venezia e la Sicilia vi si sarebbero aggiunte, e che in Roma sarebbesi formato il nucleo di quella Costituente italiana ch’erasi decretata, e che senza la compartecipazione degli stati sunnominati diveniva, come divenne, una parola vuota di senso.

Ma nè gli sforzi del Maestri, ch’era pur ritenuto per abile, nè quelli del Guiccioli, dei Camerata e del Gabussi, non che la eloquenza popolana del Ciceruacchio, valsero a svolgere il ministero toscano o meglio il Guerrazzi, che ne era l’anima e il corpo, dal suo proposito.

«Ma i commissari dell’assemblea, dice il Farini,1 non fecero frutto a Palazzo vecchio; il Ciceruacchio fece ridere in piazza; Guiccioli se ne andò a Venezia legato della repubblica romana; gli altri se ne tornarono a Roma; e Toscana restò Toscana, terra molle, su cui il turbine della rivoluzione sollevava appena un polverio alla superficie.»

Lo stesso Miraglia caldissimo patriota napoletano, viene ad avvalorare il discorso del Farini colle parole seguenti:

«L’unione di Firenze e di Roma, fondando fra Napoli e il Piemonte un regno potente, sarebbe stata un fatto capitale per la penisola; ma per le ragioni anzidette (una di queste ragioni era che Firenze era saltata bruscamente dal governo del mite Leopoldo al governo tempestoso del popolo), almeno per allora, non era attuabile. L’amore smodato del municipio, più di quel che si crede, vive ancora nella patria nostra, e sradicarlo in un istante dalle anime non è possibile a forza umana. I fatti che raccontiamo ne sono una prova evidentissima.»2 Riportammo queste parole del Miraglia nella

  1. Vedi Farini, vol. III, pag. 277.
  2. Vedi Miraglia da Strangoli, Storia della rivoluzione romana. Genova e Prato, 1850, pag. 121.