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cile provare che il fare dell’Italia uno stato solo, non sarebbe nè molto possibile nè molto desiderabile. Ma io vo’ mettere dall’un dei lati siffatta quistione, e voglio ancor concedere che e possibile e desiderabile dovesse stimarsi. Però, ci è mestieri almanco di ben giudicare a quale e quanta impresa ci mettiamo, per sapere se siamo in condizione di tentarla con un po’ di probabilità di riuscita. Si tratta di questo: disfare i presenti domimi e ridurci sotto una unica dominazione; di forma, per alcuni monarchica, per altri, repubblicana. Il che vuol dire primieramente affrontare la guerra de’ vari principi; i quali non si può supporre che di buona voglia lasciassero il seggio; anzi è da credere che invocherebbero l’aiuto de’ maggiori potentati, che o per parentela o per interesse comune non mancherebbe; senza volerci immaginare che a una nuova commozione (facilmente sufficiente a rendere i nostri principi pieghevoli nell’allargare i loro governi) debba tener dietro una sommersione generale e perpetua di tutti i regni e di tutti gl’imperi; di qualità che ogni popolo potesse trovarsi sciolto da tutti i timori, e sicurato da tutti i pericoli. Pure non basterebbe; perciocchè in Italia alla creazione di uno stato solo si avrebbero non pure i principi contrastanti, ma ancora gli stessi popoli. E la ragione sta in quel che più sopra abbiamo discorso dell’indole nostra sommamente municipale. La quale si potrà modificare, minuire, variare, ma non distruggere per forma, che a’ Napoletani, a’ Romani, a’ Toscani, a’ Lombardi, a’ Piemontesi non importasse il perdere quell’essere loro, che ornai resulta da consuetudini inveterate, da ambizioni di patrie, illustri per immortali glorie, e da un fatto naturalissimo che tutte queste cose rafferma, cioè la ben distinta qualità de’ linguaggi, quasi a indicare la distinzione politica comandata dalla natura. E se assai è costato l’unire la Liguria col Piemonte, la Venezia colla Lombardia, la Sicilia con Napoli, le Romagne con Roma, non ostante