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In complesso, la costituzione e lo statuto fondamentale in Roma era un essere piuttosto di partito anzichè una cosa la quale da tutti si volesse e desiderasse. Gridavano è vero molti Romani e non Romani, come più o meno hanno gridato sempre, contro gli abusi, i soprusi, e le irresponsabilità; desideravansi quasi universalmente migliorie e riforme; ma in che consister dovessero, quali e quante fossero queste riforme, come avessero ad attuarsi, non eravi chi tei dicesse. I desideri eran molti, ma vaghi e indeterminati; niuna formula, niun piano, niun intendimento, ne’ quali consentisser gli animi. Tale era lo stato morale e politico di Roma in quei tempi.

La Camera dei deputati presentava troppi nomi ch’erano del tutto incogniti ai Romani. Alcuni di essi se non riuscivano loro del tutto nuovi, egli era in grazia soltanto dell’aver preso parte nei passati rivolgimenti.

L’Alto Consiglio poi sebbene presentasse tutti nomi cogniti, fra i quali taluni rappresentavano l’alta proprietà territoriale ed altri ciò che nel moderno linguaggio dicesi illustrazione sociale, attraeva meno la pubblica attenzione, poichè l’elemento rivoluzionario vi si accoglieva in minime proporzioni; cosicchè tutto quel poco interesse che i partigiani del sistema costituzionale prendevano pei futuri dibattimenti restringevasi unicamente al Consiglio dei deputati, quasi ch’esso fosse tutto, e l’altro un bel nulla.

Altra causa di freddezza pei Romani era il sapere che il Santo Padre, mentre come nativo di Senigallia era amico e concittadino del conte Giovanni Marchetti eletto ministro degli affari esterni secolari, nol vedeva di buon occhio rivestito di questa qualifica: molte storielle poi andavansi raccontando per provare che consideravasi siccome un intruso fra i ministri di Sua Santità, e che le corti estere accostumate a trattare con un cardinale di santa Chiesa come ministro degli affari esterni, poco vedesser di buono occhio e mal si acconciassero a corrispondere con un laico,