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Accaduti però i casi di Napoli del 15, giunse in Bologna il 22 o 23 un ordine del re col quale richiamava le truppe, e investiva lo Statella del comando supremo.

Non è a dirsi qual trambusto ne nacque a Bologna ove trovavansi lo Statella, il general Pepe, il generale Ferrari ed il suo aiutante di campo Luigi Masi. Il popolo applaudiva al Pepe, schiamazzava contro lo Statella; ed ammutinatosi, mentre conferiva il comando al primo, ne destituiva il secondo minacciandolo anche di prigione. Tanto poi in que’ tempi la idea della indipendenza italiana inebriava le menti e offuscava la ragione, che il primo, l’assoluto dovere che stringe il soldato cioè l’obbedienza al governo, e la fedeltà alla propria bandiera, era non solo tenuto in non cale, ma coloro che l’osservavano, scherniti, vilipesi e fatti segno alla pubblica esecrazione.

I generali parlaron dal balcone; messaggi furono spediti, affinchè non retrocedessero le truppe ch’erano a Ferrara e che tenevansi pronte a valicare il Po. Dopo infinite dicerie ed esitazioni la quasi totalità delle truppe obbedì e retrocedette, soli due o tre battaglioni e poca artiglieria, sotto gli ordini del general Pepe, essendosi gittati nella Venezia per battersi in sostegno di quella repubblica.

In questa occasione rammenteremo ciò che dicemmo sotto la data del 23 marzo,1 cioè che dei due generali Durando e Ferrari i quali partiron da Roma, il primo teneva più per Carlo Alberto, il secondo per la repubblica. Ora il Pepe si mostrò inclinato alla seconda anzichè favorevole al primo, e ciò in coerenza ai principi suoi professati per tutta la vita e di cui le sue memorie e le sue geste ci somministrano irrefragabili prove.

Lo Statella invece stretto all’onor militare, e lasciati gli ordini alle milizie, le abbandonò, ritirandosi dal comando per trasferirsi in Napoli, presa la via di Firenze.


  1. Vedi il Capitolo VII di questo II volume.