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della rivoluzione di roma | 291 |
Comunque si voglia, poichè il pontefice dichiarava che nella sua coscienza non poteva romper la guerra agli Austriaci e perseverava costante nel suo proposito, non ci si negherà che, vedute le cose senza passione, esso fu sublime in questa sua resistenza.
Sostenne egli assalti poderosissimi per disviarlo dallo adottato proposito e non piegò giammai. Giammai ressa più impetuosa e pervicace non si fece sull’animo di un uomo come quella contro la quale ebbe a lottare: perchè prima il ministero tutto, poi il municipio, quindi la civica, i circoli, la stampa, i parlari domestici, le grida della piazza, le minaccie dei furibondi, le lacrime vere o false dei paurosi e dei traditori, tutti, in fine esortavano per la guerra.
E come non fosser bastati sì svariati e potenti elementi, vi si unirono pur anche a fargli forza i commissari della Lombardia, di Venezia e della Sicilia, e tutti patrocinavan la guerra, mentre i deputati napoletani lo spingevano per capitanare la Dieta italiana. A questi poi si aggiunsero per soprassello e l’opuscolo del Fiorentino e quello del Petrocchi e la lettera del prete Carenzi, ai quali si dette contestualmente tale una diffusione, che la città tutta in quel momento non leggendo che scritti dello stesso colore, e non ascoltando che voci nello stesso senso, era divenuta quasi unanime nello stesso pensare.
Pur non ostante il papa, fermo come roccia granitica, resiste contro gli urti iterati di tanti e sì svariati elementi, e resiste solo senza conforto, senza consiglio, senza neppure la speranza di essere ascoltato efficacemente. Esso ne vedeva tutte le conseguenze, presentiva gli scompigli che avrebbe recato la perdita della sua popolarità, l’odio del partito che aveva creduto col perdono di disarmare e ammansire, lo scoraggimento de’ suoi stessi devoti. In una parola vedeva tutti i pericoli d’ogni genere che sovrastavangli, e che minacciavano di una repentina rovina quell’edificio stesso ch’erasi innalzato alle stelle.