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non altro che d’essersi consecrati a Dio da pochi mesi in una Religione? E poi non è possibile che in tempo sì corto escan da Napoli tante persone, si gettino ad un ramingare incertissimo, massime che ce ne ha dei vecchi impotenti, e degl’infermi gravissimi. — Usciremo e ciascuno penserà a sè: nè si creda che i Gesuiti abbiano ad essere trucidati per le contrade: i pochi fanatici arrabbiati stanno su di una porta; e se voi ci guarentite quell’uscita o ce ne schiudete un’altra, noi sarem sicuri in ogni punto della città, meglio che in nostra casa.»1

Trovate giuste queste osservazioni dal direttore, corre al Consiglio dei ministri, promettendo di recare fra mezz’ora la risposta. Essa fu di questo tenore:

«Sia libero a ciascuno il ricoverare ove creda meglio, tanto solo che il faccia con prudenza da schivare pericoli; porti ognuno con seco ciò che vuole: gli archivi, i gabinetti, la biblioteca; ogni cosa sia sugellata; restino in casa i vecchi e i gravemente infermi; più tre o quattro padri per la custodia della chiesa, della casa stessa, e per l’amministrazione economica; stantechè non essendo legalmente disciolta la Compagnia, le rendite doveano reputarsi tuttavia di sua pertinenza.»

Ne uscirono allora una ventina dalla porta del Mercatello, e diciotto da un’altra porta, col permesso del colonnello della guardia nazionale. Quantunque travestiti, due ne furono riconosciuti, e bastò questo perchè coloro che dicevansi rappresentanti del popolo, e che li avrebbero voluti tutti scacciati onninamente dal regno, si recassero al direttore di polizia, ch’era tuttora alla porteria del convitto, gridando contro la determinazione del governo troppo ai Gesuiti favorevole. S’impegnò una lizza a parole, nella quale il direttore si sforzò di mostrare l’ingiustizia di quel procedere, chiedendo ad essi chi fossero, e dichiarando

  1. Detto opuscolo, pag. 18.