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Il Ranalli alludendo alle domande dei circoli, alle insistenze dei comitati, alle petizioni e ambascerie che giungevano dalle provincie, ai clamori plateali, agl’indirizzi municipali, esclama nella sua storia con molta giustezza di vedute. «In vero non fu mai fatta ad alcun governo cotanta ressa per istrappargli quello che meno di ogni altro avrebbe potuto concedere1

Se noi non fossimo stati in Roma, e non avessimo veduto cogli occhi nostri che il vero governo era nella piazza e nei circoli; se non avessimo esperimentato e toccato con mani la pressura esterna e la violenza che, e nel governo, e nel municipio, e nelle accademie, e nei quartieri civici, e nelle mura domestiche perfino traforavansi; e non avessimo inoltre veduto i lenocinl, le gherminelle e gli abbindolamenti che adoperavansi per forzare in ogni modo le volontà individuali dei cittadini onde obbligarli a dire il più delle volte (per quiete propria) quello che non avrebber voluto, ma che pure piaceva al partito dominante che si dovesse dire, noi ci permetteremmo di disapprovare l’indirizzo del municipio, il quale in luogo di limitarsi all’amministrazione del comune, prendeva l’iniziativa nelle cose politiche, e forzava in certo modo la mano al potere per domandare nientemeno che un cambiamento di governo. Ma ripeteremo ciò che più e più volte abbiam detto, che i tempi così correvano, e che l’ipocrisia rivoluzionaria signoreggiando prepotentemente, dominava le cose e costringeva tutti a secondarla.

Eravamo nel regno del caos, e doveva chiamarsi il regno dell’ordine; si camminava versò il precipizio, e pareva a molti che si stesse al sicuro; veleggiavasi in un mare burrascoso, e sostenevasi che incolumi eravamo entrati nel desiderato porto. Questo lo stato vero delle cose nel marzo del 1848.

Parleremo fra poco dello statuto che si concedette, delle sue disposizioni generali, e dell’effetto che produsse.


  1. Vedi Ranalli, vol. II, pag. 203.