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Pio IX d’altra parte, quantunque fosse alieno dall’imitare le geste degli armigeri e bellicosi Alessandro III e Giulio II, non voleva perdere il frutto del già iniziato rappacificamento fra Roma e le provincie, fra i papalini ed i liberali, e quindi non censurava apertamente, ma prudentemente premuniva contro le tendenze degli utopisti, mediante la circolare anzidetta, bastandogli di far comprendere che essi volevan cose, ch’egli non poteva concedere, e ch’egli in somma non poteva andare fin dove gli altri volevano spingerlo.

Ma non credano già i nostri lettori che questi ammonimenti facessero impressione, e producesser frutto. La rivoluzione scaltramente s’era già impossessata dell’indirizzo della opinione pubblica. Si leggeva e commentava ciò ch’essa metteva in evidenza; ma ciò che non si voleva che si divulgasse, poco o nulla si leggeva, poco o nulla si commentava, e cadeva nell’oblio istantaneamente. E della circolare del cardinale Gizzi accadde quello stesso che accadde della notificazione di monsignor Santucci del 19 di luglio. Qual fuoco fatuo apparvero in un momento entrambe, ma subito si fé silenzio, si pose della cenere sopra, ed operossi in guisa, che niuno ne comprendesse il vero valore. Se ne vuole una prova? Si cerchi pure nel Diario di Roma sì l’uno come l’altro atto, e vana sarà la ricerca. Potevano dunque giammai gli esteri, leggendo le cose nostre, rinvenire traccia veruna di quella lotta costante fra la rivoluzione e il potere, di cui in queste carte somministreremo ad ogni istante le prove? Non già. Leggendo gli atti pubblici del governo avresti detto regnare in tutto e fra tutti la più amorevole concordia, essere tutti uniti, volere tutti una cosa sola. Eppure ben altrimenti passavansi le nostre faccende. Era una guerra larvata, stringevansi tutti con apparente amorevolezza la mano, mentre guardavansi in cagnesco, portando nel cuore l’ira, la diffidenza, il sospetto.

Che se pure avesse taluno avvertito che quelle parole