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della rivoluzione di roma | 73 |
dice al severo stilo della storia di ritrarre e vituperare le circostanze tutte che ne accompagnarono lo svolgimento. E mentre dobbiamo congratularci di appartenere al secolo immortale che fece sparire le distanze, mediante il vapore e il telegrafo elettrico, e che costrinse la natura stessa a riprodurre le opere sue, in grazia della fotografia, dobbiamo piangere a calde lacrime per lo scadimento morale io cui siamo piombati, e che caratterizza pur troppo il secolo in cui viviamo. Ahi trista troppo, ma incontrastabile verità! Le feste e i tripudi del luglio 1846 furono la dichiarazione di guerra, non al papa soltanto, nè al sovrano di un piccolo stato di tre milioni di abitanti, che volevasi esautorare, ma al centro diffonditore dell’umano incivilimento.
E i figli non solo di questa Italia, che andar dovrebbe superba di sostenere il papato, il quale ne forma la sua prima grandezza, ma i figli ingrati pur anco di tutte le altre nazioni che succhiarono un giorno il latte della civiltà da questa Roma (cui ben si addice il nome di eterna), corsero con turpe consiglio a combatterla, squarciando e dilaniando barbaramente così le membra stesse di quella madre amorosa che die loro il latte della civiltà, e ciò in nome della civiltà stessa, che magnificavano a parole, e conculcavan coi fatti.
Che poi le feste, le lodi, le ovazioni a Pio IX fossero per parte di molti una finzione, e un inganno, col’disse chiaramente il Mazzini, nel suo discorso ai Romani del 6 marzo 1849, colle parole seguenti: «Noi siamo stati finora in un periodo di menzogna, nel quale gli uni gridavano evviva a chi non stimavano, perchè credevano di giovarsene, gli altri nascondevan la loro credenza, perche dicevano non essere tempo di rivelarla.1» A queste parole del Mazzini fa eco il Montanelli.
- ↑ Vedi il discorso di Giuseppe Mazzini nell’Epoca degli 8 marzo 1849, n. 290 pag. 1151