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allo spirito del vangelo, esposto con soavità di concetti, del quale da un mese sì era in aspettazione, e che veniva decantato e preconizzato come iride di pace, àncora di salvezza, foriero di felicità: s’immagini da un lato un popolo, che di buona fede favorevolmente l’accoglie, e dall’altro un numero considerevole di giovani entusiasmati, che leggono l’atto a questo e a quello, e lo spiegano, e lo commentano, e lo esaltano, e lo magnificano, e sarà facile il persuadersi che coll’addizione di tanto calorico artificiale, la temperatura morale di Roma montare dovesse ad un punto da disgradarne la stessa acqua bollente. E così fu per appunto.

Ma con tutto ciò, ammesso ben anco che ne fosse venuto un bene al paese, se non vi fosser stati il principio politico di mezzo e gli artificî delle politiche associazioni, scaltramente operose onde eccitare, svolgere e infervorare cosiffatti tripudi, le cose sarebber passate come sempre, tranquillissimamente.

Ma i Romani, che all’indole generosa del cuore associano la calda immaginativa ch’è retaggio dei popoli meridionali, ciò che non avrebber fatto da per loro, il fecero perché gradatamente si era saputo esaltare la loro immaginazione, e quindi si associarono in buona parte al movimento che da occulte origini emanava. In prova di che, e per mostrare la buona fede colla quale noi papalini veri agivamo per festeggiare il pontefice e gli atti suoi, fui io stesso uno dei primi a dare movimento alle feste che si videro in seguito, scrivendo fino dal 23 luglio 1846 una lettera al maestro Rossini per indurlo a comporre pel nuovo pontefice quella cantata magnifica che il 1 gennaio 1847 si eseguì nella gran sala del Campidoglio.1

Ad onta di ciò peraltro diciamo e sosteniamo che mancò la spontaneità della prima dimostrazione, dalla quale tutte le altre sono derivate, e che se non fosse stata così ben organizzata preventivamente in guisa da fare com-

  1. Vedila in istampa fra le Miscellanee, vol. XX, n. 2.