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colo che avevano scelto i generali Durando e Ferrari, alla cui incapacità o infedeltà attribuivasi quel disastro.

Dal fin qui esposto chiaramente emerge non solo la immensa importanza, ma eziandio la quasi esclusiva autorità che il circolo romano era venuto ad assumere, e la iniziativa assoluta che in cose, anche del più grave momento, attribuivasi, intervenendo non solo gli ordini dello Stato, ma erigendo un governo di fatto entro il governo di diritto, o meglio un governo reale entro uno reso nominale e impotente, con una non saprem dire se più fragrante irregolarità o più mostruosa usurpazione.

E difatti qual maggiore sovvertimento di ordino, di leggi, di politica sociale può presentarci la storia, che quello di vedere che alcune private riunioni assumano il diritto di romper la guerra; diritto che in tutti gli stati, in tutti i governi, in tutte le costituzioni al solo sovrano appartiene?

Che cosa può mai immaginarsi di più riprovevole, che quella di adottare provvedimenti guerreschi, prima di conoscere le intenzioni del sovrano stesso e quelle del suo governo? E ciò, dove? Nello stato il più pacifico del mondo, qual è e dev’essere lo stato pontificio; in Roma, in quella Roma che è sede del cattolicismo e residenza del vicario in terra del Dio di pace.

Ritornando a narrare quel poco che sul circolo romano troviamo ancora nei ricordi storici, diremo che il 29 maggio 1848 il famoso Gioberti, giunto di fresco in Roma, si recò al circolo anzidetto ove ricevette applausi fragorosi. Recitò un discorso in lode del Santo Padre e del circolo, in proposito del quale disse e così terminò il suo discorso: «Viva dunque il circolo romano, iniziatore in Roma della vita civile, esempio di concordia e di moderazione a tatto la penisola.»

Fattogli un complimento dal ferrarese avvocato Gnoli, rispose Pietro Sterbini al discorso del Gioberti: e tuttociò può leggersi nel Contemporaneo.1


  1. Vedi il Contemporaneo, n. 61.