menti gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò rettorica; l’animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l’orazione a Carlo V con lo stesso animo che scrive il Capitolo sul Forno, salvo che qui è nella sua natura, e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne’ costumi e ne’ modi. Anche l’intelletto, in quella sua virilità ozioso, poneva la principale importanza della composizione ne’ costumi e ne’ modi, ovvero nell’abito. Quell’abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto d’imitazione, a cui l’intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche, i poeti petrarcheggiavano, i prosatori usavano un genere bastardo poetico e rettorico con l’imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o indifferenza dell’intelletto, del cuore, dell’immaginazione, cioè a dire di tutta l’anima. Ci era lo scrittore, non ci era l’uomo. E fin d’allora fu considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi forma letteraria, nella piena indifferenza dell’animo, divorzio compiuto tra l’uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna.
Qui l’uomo è tutto, e non ci è lo scrittore, o ci è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un’arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova, e ci riesce maestro: ed è, quando vuol fare il letterato