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e di osservazione. Manca l’immaginativa; soprabbonda lo spirito. Ci è il critico, non ci è il poeta. Non ci è l’uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. Ci è l’uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell’universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere:

Io spero, e lo sperar cresce il tormento,
Io piango, e il pianger ciba il lasso cuore;
Io rido, e il rider mio non passa drento;
Io ardo, e l’arsion non par di fuore;
Io temo ciò ch’io veggo e ciò ch’io sento,
Ogni cosa mi dà nuovo dolore;
Così sperando piango, rido e ardo,
E paura ho di ciò che io odo o guardo.

Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come ne’ Decennali:

La voce di un Cappon tra cento Galli,

e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto de’ Diavoli o de’ Romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell’Occasione, massime la chiusa che ti colpisce d’improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente lo scrittore del Principe e de’ Discorsi.

Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle Confraternite, nella descrizione della peste, e ne’ discorsi che mette in bocca a’ suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocinii della rettorica e gli artificii dello stile: ciò che si chiamava eleganza.