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per bocca di Monsignor Mazzetti annunziava un largo riordinamento degli studii. Che si voleva più? I liberali con quel senso squisito dell’opportunità che ha ciascuno nell’interesse proprio, inneggiavano a’ principi, stringevano la mano a’ preti, fino ridevano a’ gesuiti. Fu allora che apparve in Italia un’opera stranissima, il Primato di Vincenzo Gioberti. Ivi con molta facilità di eloquio, con grande apparato di erudizione, con superbia e ricercatezza di formole si proclamava il primato della civiltà italiana riannodata attraverso le glorie romane alle tradizioni italo-pelasgiche, fondata sul Papato restitutore della religione nella sua purità, riconciliato con le idee moderne, e tendente all’autocrazia dell’ingegno e al riscatto delle plebi. La creazione sostituita al divenire egheliano rimetteva le gambe al soprannaturale e alla rivelazione, tutto il risorgimento era dichiarato eterodosso o acattolico, e il presente si ricongiungeva immediatamente col medio evo. Era la conciliazione politica, sublimata a filosofia, era la filosofia costruita ad uso del popolo italiano. Frate Campanella pareva uscito dalla sua tomba. L’impressione fu immensa. Sembrò che ci fosse al fine una filosofia italiana. Vi si vedevano conciliate tutte le opposizioni, il papa a braccetto co’ principi, i principi riamicati a’ popoli, il misticismo internato nel socialismo, Dio e progresso, gerarchia e democrazia, un bilanciere universale. Il movimento era visibilmente politico, non religioso e non filosofico. E ciò che ne uscì, non fu già nè una riforma religiosa nè un movimento intellettuale, ma un moto politico tenuto in piede dall’equivoco, e crollato al primo urto de’ fatti. Questa era la faccia della società italiana. Era un ambiente, nel quale anche i più fieri si accomodavano, non scontenti del presente, fiduciosi nell’avvenire; i liberali biascicavano paternostri, e i gesuiti biascicavano progresso e riforme. La situazione in fondo era comica, e il poeta