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Uscivano dal suo pennello la Sfida di Barletta, il Brindisi di Francesco Ferruccio, la Battaglia di Gavinana, la Difesa di Nizza, la Battaglia di Torino. Il medesimo era del misticismo. L’ispirazione artistica, da cui erano usciti gl’Inni e il Cinque Maggio e l’Ermengarda, non fu più il quadro, fu l’accessorio, un semplice colore attaccaticcio sopra un fondo estraneo, filosofico e politico. Vennero gl’Inni alle Scienze, alle Arti, gl’inni di guerra. Rimasero Madonne, Angioli, Santi e Paradiso, a quel medesimo modo che prima Pallade, Venere e Cupido, semplici ornamenti e macchine poetiche, estranee all’intimo spirito della composizione, o puramente arcadiche. Dove la poesia gitta via ogni involucro romantico e classico, è ne’ versi del Berchet. E non poco vi contribuì Lord Byron, vivuto lungo tempo in Venezia, di cui si sentono i fieri accenti nell’Esule di Parga. Se Giovanni Berchet fosse rimasto in Italia, probabilmente il suo genio sarebbe rimasto inviluppato nelle allusioni e nelle ombre del romanticismo. Ma esule portava a Londra i dolori e i furori della patria tradita e vinta. Fu l’accento della collera nazionale in una lirica, che lasciate le generalità de’ sonetti e delle canzoni s’innestò al dramma, e colse la vita nelle più patetiche situazioni. La voce possente di questa lirica drammatica giunse solitaria in un’Italia, dove i secondi fini della prudenza politica avevano rintuzzata la verità e virilità dell’espressione. Si era trovato una specie di modus vivendi, come si direbbe oggi, una conciliazione provvisoria tra principi e popoli. I freni si allentavano, ci era una maggiore libertà di scrivere, di parlare, di riunirsi, sempre in nome del progresso, della coltura, della civiltà: gli avversarii erano detti oscurantisti. I principi facevano bocca da ridere; promettevano riforme; e sino il più restìo, Ferdinando secondo, chiamava alle cattedre, alla magistratura, a’ ministeri uomini colti, e