sue illusioni, nelle sue promesse, nei suoi disinganni, nelle sue esagerazioni. Il regno d’Italia, la spedizione di Murat, le promesse degli alleati, la lotta d’indipendenza della Spagna e della Germania, l’insorgere della Grecia e del Belgio aguzzavano il sentimento nazionale: l’unità d’Italia non era più un tema rettorico, era uno scopo serio, a cui si drizzavano le menti e le volontà. I più arditi e impazienti cospiravano nelle società secrete, contro le quali si ordinavano anche segretamente i sanfedisti. Fatto vecchio era questo. Ma il fatto nuovo era, che nella grande maggioranza della gente istrutta si andava formando una coscienza politica, il senso del limite e del possibile: la rettorica e la declamazione non avea più presa sugli animi. La grandezza degli ostacoli rendea modesti i desiderii, e tirava gli spiriti dalle astrazioni alla misura dello scopo e alla convenienza dei mezzi. La libertà trovava il suo limite nelle forme costituzionali, e il sentimento nazionale nel concetto di una maggiore indipendenza verso gli stranieri. Una nuova parola venne su: non si disse più rivoluzione, si disse progresso. E fu il maestoso cammino dell’idea nello spazio e nel tempo verso un miglioramento indefinito della specie, morale e naturale. Il progresso divenne la fede, la religione del secolo. Ed avea il suo lascia passare, perchè cacciava quella maledetta parola che era la rivoluzione, e significava la naturale evoluzione della storia, e condannava le violente mutazioni. Il progresso raccomandava pazienza a’ popoli, dimostrava compatibile ogni miglioramento con ogni forma di governo, e si accordava con la filosofia cristiana, che predicava fiducia in Dio, preghiera e rassegnazione. Oltre a ciò, libertà, rivoluzione indicavano scopi immediati e non tollerabili ai governi, dove progresso nel suo senso vago abbracciava ogni miglioramento, e dava agio a’ principi di acquistarsi lode a buon mercato, promovendo, non fosse altro, mi-