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Tutta la sua compassione è per Luigi XVI, e tutta la sua indegnazione è per l’Assemblea nazionale, per quei profumati barbari, balbettanti una qualche non lor libera idea, per quei ribaldi fortunati, contro i quali gitta l’ultimo strale nel Misogallo:

Tiene il Ciel da’ ribaldi, Alfier da’ buoni.

Eccolo dunque quest’Alfieri solitario, che serba in sè inviolato e indiviso il suo modello, e se il cielo gli dà torto, lui dà torto al cielo. Taciturno e malinconico per natura, risospinto dalla società ancora più in sè stesso, solo col suo modello, rimane nel mondo vago e illimitato de’ sentimenti e de’ fantasmi, dove non ci è di concreto e di compiuto che il suo individuo. Perciò i suoi fantasmi sono più simili a concetti logici, che a cose effettuali, più a generi e specie che ad individui. Non sono astrazioni come le chiamano. Potrebbero vuote astrazioni destare un interesse così vivo? Anzi sono fantasmi appassionati, ribollenti, sanguigni; non ci è vacuità, ci è congestione di un sangue non ingenito e proprio, ma trasfuso e comunicato. Senti nella tragedia la solitudine dell’uomo, che armeggia con sè stesso e produce la sua propria sostanza. Non ama ciò che gli è estrinseco, la natura, la località, la personalità, e non l’intende e non la tollera, e la stupra, lasciandovi le sue orme impresse. Il calore di una potentissima individualità non gli basta a infonder la vita, e resta impotente alla generazione, perchè gli manca l’amore, quel sentirsi due e cercar l’altro e obbliarsi in quello. Impotenza per soverchio di attività, che gli toglie la facoltà di ricevere le impressioni e riprodurle. L’occhio torbido della passione non guarda intorno, non si assimila gli oggetti esterni. Alfieri è tutto passione, diresti quasi che voglia con un solo impeto mandar fuori il vulcano