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rivendicazione intellettuale dirimpetto alle assurdità teologiche e feudali, rivendicazione accompagnata con la dissoluzione morale: era l’ironia della scienza a spese dell’ignoranza, e l’ignoranza fa ridere. Ma qui l’ironia è il risveglio della coscienza dirimpetto ad una società destituita di ogni vita anteriore; lì era l’ironia del buon senso, qui è l’ironia del senso morale. Senti che rinasce l’uomo, e con esso la vita interiore.

La parola di quella vecchia società era a sua immagine, cascante, leziosa, vuota sonorità, travolta e seppellita sotto la musica. Qui risuscita la parola. E vien fuori faticosa, martellata, ardua, pregna di sensi e di sottintesi. La parola scopre l’ironia, perchè è in antitesi con quella società molle ed evirata che il poeta finge di celebrare.

Togliete ora l’ironia, fate salire sulla superficie in modo scoperto e provocante l’ira, il disgusto, il disprezzo, tutti quei sentimenti che Parini con tanto sforzo dissimula sotto il suo riso, e avete Vittorio Alfieri. È l’uomo nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo a’ contemporanei, statua gigantesca e solitaria col dito minaccioso.

Alfieri si rivelò tardi a sè stesso, e per proprio impulso, e in opposizione alla società. Fino a ventisei anni avea menata la vita solita di un signorotto italiano, tra dissipazioni, viaggi, amori, cavalli, che non gli empivano però la vita. De’ primi studi non gli era rimasto che l’odio allo studio. Ricco, nobile, non ambiva nè onori, nè ricchezze, nè ufficii, viveva senz’altro scopo che di vivere. Vita vuota de’ ricchi signori, che se ne contentano, e a cui guardano con invidia i men favoriti dalla fortuna. Ma non se ne contentava Alfieri, e spesso era tristo, e fra tanto inutile affaccendarsi sentiva la noia. Era malattia italiana, propria di tutt’i popoli in decadenza, l’ozio interno, la vacuità di ogni mondo inte-